12 Feb Viaggiare nel tempo con la birra: il Barleywine Degustazione e approfondimento storico dello stile
A cura di Massimo Faraggi
1902 è la data riportata sull’etichetta, nonché incisa sulla banda stagnata che ricopre il tappo. Non è la data di fondazione della birreria, ma proprio l’anno in cui la birra che ci accingiamo a stappare è stata prodotta! Finalmente è arrivata l’occasione e la compagnia giusta per provare – non senza trepidazione – ad assaggiare questa birra brassata 115 anni orsono. Si tratta della celebre King’s Ale, inglese prodotta da Bass per commemorare la visita di Re Edoardo alla birreria.
1902… tanto per dare un’idea, il mondo non aveva ancora sofferto le due guerre mondiali, gli aerei non esistevano ancora e pennicillina e antibiotici sarebbero arrivati più di 30 anni dopo.
La Regina Vittoria era morta da solo un anno, la Gran Bretagna dominava i mari e l’Impero Britannico era vicino al suo apogeo. I più lungimiranti già ne intravvedevano i primi indizi di cedimento, comunque ancora lontani dal manifestarsi. La Gran Bretagna era ancora la prima potenza industriale (anche se insidiata da Stati Uniti e Germania) e l’industria birraria era un suo fiore all’occhiello: tecnologicamente la più avanzata durante il diciannovesimo secolo, sebbene la concorrenza delle lager continentali e del resto del mondo si sarebbe ben preso fatta sentire.
Proprio la Bass era la maggiore birreria del mondo, e sopravvivrà all’Impero Britannico di oltre mezzo secolo – ahimè estinguendosi nel susseguirsi delle acquisizioni dell’inizio degli anni 2000.
Un tale inquadramento storico viene spontaneo di fronte ad una birra così ricca di storia, e c’è sicuramente anche una storia non raccontata dietro a una bottiglia arrivata in chissà quanti passaggi fra le nostre mani. Indubbiamente ciò che colpisce prima di tutto è l’idea di bere una birra invecchiata per oltre un secolo; ma un altro aspetto che mi affascina ancora maggiormente è quello di poter assaggiare una birra che appartiene ad un’altra epoca, prodotta con metodi e ingredienti di 115 anni fa, per i gusti dei consumatori dell’epoca: è un po’ come se fossi io a fare il viaggio indietro nel tempo.

La birra è ancora arzilla, il tappo un po’ meno (foto di Rita Marinone)
Con meno difficoltà del previsto riusciamo a stappare la bottiglia: il tappo si spezza e in parte cade all’interno ma senza sbriciolarsi. Travasiamo in una caraffa passando per un colino (quasi inutile): la birra è molto limpida, di un rosso rubino scuro, e forma una leggerissima schiuma. “E’ ancora viva!”
Paradossalmente, non è il fatto di essere una edizione speciale a render questa birra… speciale: il fatto di essere etichettata come King’s Ale e “prodotta” dal Re in persona [1] ha fatto sì che invece di essere semplicemente bevuta nel giro di poco tempo e il vuoto gettato nell’immondizia, sia stata conservata gelosamente (prodotta dal Re, un po’ di rispetto, perbacco!) e arrivata a noi. Dal punto di vista collezionistico, non è quindi una birra particolarmente rara, ma il suo interesse birrario risiede proprio nel fatto di essere “nient’altro” che tipica del suo stile ed epoca: la King’s infatti è la classica N.1 Barley Wine della Bass con altra etichetta.
Kings’ Ale o Bass n.1 che sia, si tratta di una birra importante, archetipo in un certo senso dello stile dei BW. L’importanza storica di questa birra non è di essere il primo barley wine prodotto, piuttosto il fatto di rappresentare la prima birra per cui sia stato adottato questo termine [2]. La Bass di Burton-on-Trent produceva già da decenni birre (Burton Ales) di questo tipo, la N.1 in particolare: in quell’epoca, senza troppa fantasia, le birre venivano identificate per l’appunto con una numerazione (N.1 solitamente la più forte e costosa, e via via con la 2 e le altre) e talvolta con lettere assegnate con ordine più o meno casuale. Nei secoli XIX e precedenti, in Gran Bretagna, la gradazione delle birre dei diversi stili era maggiore rispetto ad ora: si abbassò decisamente solo a seguito delle guerre mondiali. Una “N.1” era semplicemente una birra un po’ più forte ma non eccezionalmente per quei tempi; l’idea di Bass di chiamarla barley wine è stata comunque talmente azzeccata da far sopravvivere termine (e stile) fino ai giorni nostri.
Verso il primo bicchiere e lo avvicino al naso: è questo il momento della verità! Alcool, certo, ma niente solventi o “puzze” particolari, e questo è già un bel risultato per una birra di oltre un secolo! Distribuiamo fra noi la birra e proseguiamo nello scoprire i suoi aromi: sono quelli classici dei barley wine, soprattutto fichi secchi, datteri, mosto cotto, meno spinti tuttavia che in altre birre estreme, affiancati a ciliegie sotto spirito e a una sorprendente, delicata, nota di caffé.
Come per la porter, si potrebbe dire che lo stile dei BW non esiste, o voglia dire tante cose diverse. “Non esiste il BW, esistono i BW”, soprattutto considerando che le sue origini si perdono nel tempo, che la denominazione è descrittiva (vino d’orzo, ovvero birra forte come il vino), nonché il fatto che in anni recenti il termine sia stato talvolta applicato a birre di stili e caratteristiche diverse. Per quanto detto prima, i più classici BW possono considerarsi derivati dalla Burton Ale, anzi più che derivati ne rappresentavano un tipo, quello più forte. Le Burton erano birre di varia gradazione ma comunque ambrate o scure, corpose e relativamente dolci, ben diverse dalle più recenti e modaiole (per l’epoca) pale ale di cui la stessa Bass era la maggiore produttrice. Le origini dei BW tuttavia si possono tracciare in birre tradizionali anche più antiche, in particolare le October Ale: nelle country house nobiliari del Regno – sempre dotate di birreria propria – vigeva l’usanza di produrre birre particolarmente forti e pregiate, generalmente in primavera o in ottobre, destinate ad un consumo limitato a occasioni speciali e sottoposte ad un lungo invecchiamento. Spesso una birra di tal genere veniva prodotta alla nascita di un “rampollo” per essere stappata al raggiungimento della maggiore età. Oltre al grado alcolico, anche il luppolo – in qualità di conservante – aveva un ruolo importante, tanto che in diverse ricette la quantità di luppolo è indicata come direttamente proporzionale agli anni di invecchiamento: una maggiore quantità infatti garantiva una migliore conservazione e al tempo stesso la troppo intensa luppolatura si sarebbe ammorbidita nel corso degli anni. Si tratta di birre non esattamente sovrapponibili alle Burton Ale più forti, ma pur sempre nella tradizione delle birre “da invecchiamento” che rappresenta una caratteristica peculiare dei BW più classici. Birre del genere erano a volte denominate Stock Ale o anche Old Ale: alcuni autori differenziano fra queste e i BW ma le distinzioni sono spesso sfumate [2], ed é comunque da notare che le varie Old Ale inglesi hanno origini e caratteristiche diverse fra loro.
È il momento di berla, finalmente! E lo facciamo senza esitazione… il primo sorso già ci tranquillizza sulla condizione della birra: dopo 115 anni ci si potrebbe aspettare di tutto, ma non veniamo assaliti da alcun sentore aggressivo né da difetti che pure sarebbero stati comprensibili. L’acidità è moderata, si tratta piuttosto di un vinosità; la birra è ossidata, certo, ma meno di quanto ci si potesse aspettare. Il corpo c’è ancora tutto, e nel complesso la birra più che un Madeira o un Marsala ricorda un Porto Vintage o un grande vino rosso ammorbidito dalla maturazione ma ancora con tutto il suo nerbo e carattere.

Le due “nonnine” in posa
Lunga è la storia dei BW anche dopo l’inizio del XX secolo. La Thomas Hardy’s, spesso considerata fra gli archetipi dello stile [3], è una “giovincella” essendo nata solo nel 1968. Nel secondo dopoguerra Tennant’s [4] lanciò “Gold Label”, il primo BW dorato, in questo seguita da altri produttori. Gold Label è ancora prodotta (anche se difficile dire da chi, vista la miriade di acquisizioni e chiusure) disponibile anche in lattina e pericolosamente vicina al confine fra pregiata birra da meditazione e classica birra alcolica “da sbronza” tipo Tennent’s Super. Quanto al “nostro” N.1 Barleywine, è gloriosamente sopravvissuto – quasi invariato nella gradazione [5], caso davvero raro – fino agli anni 80-90, per poi essere occasionalmente “riesumato” dalla piccola birreria-museo di Burton-on-Trent, anche quando dopo la scomparsa di Bass questa passò nelle mani di Coors. L’esplosiva renaissance della birra artigianale in tutto il mondo ha riesumato e rilanciato stili quasi scomparsi – sia importanti come le porter, che di nicchia come le varie gose e similari – ma sorprendentemente ha un po’ trascurato questo stile. Mentre per le “cugine” imperial stout – per certi versi simili come gradazione e tipo di consumo – c’è stata una vera inflazione, per i BW questo non è avvenuto più di tanto, nemmeno in Regno Unito (anzi, qui forse meno che non in altri paesi).
Ad ogni modo fra classici miracolosamente sopravvissuti come Lee’s Harvest Ale e Harvey’s Elizabethan, acquisti vintage online, revival e naturalmente nuovi BW artigianali, con un po’ di sforzo non è difficile raccogliere e confrontare vari esemplari, come abbiamo fatto per i tasting di questo numero.
In bocca si ripropongono gli aromi già preannunciati al naso, con altrettanta piacevolezza. Solo una punta di salino e acidulo, ampiamente tollerabile, ci ricorda che la birra – ci mancherebbe! – sente un po’ il peso degli anni, ma la sensazione è quella di bere non un reperto storico per il gusto della scoperta, ma una birra che sarebbe considerata ottima anche se commercializzata ora, da bere per il piacere di berla… e infatti un altro giro di assaggi e la bottiglia (una sostanziosa pinta) è già vuota
Dopo un tale excursus storico è il caso di soffermarsi, sia pur brevemente, sulle caratteristiche dei BW, quelle comuni un po’ a tutti gli esemplari e quelle che differenziano le varie interpretazioni.
Il grado alcolico è naturalmente un elemento comune, come pure il fatto di prestarsi all’invecchiamento e un accento sulle caratteristiche del malto (più quello “di base” che i non i malti speciali). Del colore si è detto; schiuma e carbonazione sono basse o assenti, comunque con una certa limitata variabilità. Le note caramellate spesso derivano più dalla concentrazione stessa del mosto e dalla lunga ebollizione che dall’impiego di malti caramello. Le tostature sono solitamente delicate o del tutto assenti, ma emergono talvolta note sorprendenti di cioccolato e di caffè. Il malto la fa da padrone: descrittori caratteristici sia al naso che in bocca sono uva passa, datteri, fichi secchi, estratto di malto, cugnà, e poi più variamente marmellata (rossa o d’arance), noci, cioccolato, salsa di soia, con varia distribuzione e intensità. L’alcool è naturalmente presente nell’aroma e nel warming. Il luppolo è sempre ben presente nell’amaro per equilibrare la dolcezza del malto, anche se l’equilibrio può variare molto nei diversi esemplari, così come il corpo e l’acidità.
Alcuni esemplari (come la Thomas Hardy’s e ancor più la meno nota ma altrettanto eccezionale Harvest Ale di Lees) puntano decisamente sul malto, spingendo molto sui primi descrittori elencati e raggiungendo una intensità e complessità eccezionale ottenuta solo dalla concentrazione del malto di base; il corpo è imponente e l’equilibrio spostato sul dolce, soprattutto nella Harvest. Un altro filone di BW (penso in particolare alla Prize Old Ale e altri simili) presenta un’intensità sempre notevole ma meno esplosiva sugli aromi di cui sopra (frutta secca ecc), un equilibrio meno incentrato sul dolce, un corpo sostanzioso ma per certi versi quasi watery, una vinosità più accentuata e una certa acidità. Altri BW (Old Foghorn e Old Nick, ad esempio) hanno gradazione alcolica meno elevata ma un corpo e intensità comunque notevoli, aromi più spostati sulla marmellata, e un amaro progressivo che può diventare anche piuttosto intenso.
Senza dilungarci troppo oltre, infine, i BW “stile USA” sono naturalmente caratterizzati dal luppolo locale, sia come amaro che come aroma (questo generalmente quasi assente negli inglesi): Bigfoot di Sierra Nevada è un noto e ottimo esempio, anche se a mio parere si può considerare antesignano delle Double IPA. Va anche detto che in USA vengono anche prodotti ottimi e classici BW “stile inglese” come ad esempio il Victory Old Horizontal.
Fra tutte queste varianti, i migliori esemplari (fra cui anche il nostro “King’s” o N.1 che dir si voglia) sono a mio parere fra i più entusiasmanti “nettari” che il nostro palato possa assaporare: birra da Re, Regina fra le birre si può ben dire!
Massimo Faraggi
dello stesso autore:
Birre del Secondo Millennio: Degustazione barley wine 1946-1999
MovimentoBirra n.12
Doble Doble e October Ale: Tecniche e tradizioni inglesi per le birre di alta gradazione
MovimentoBirra n.9
[1] “Prodotta dal Re” nel senso che probabilmente nel corso della sua visita, Edoardo VII azionò la valvola per la prima immissione dell’acqua che diede inizio alla cotta, o qualcosa del genere
[2] Secondo Martyn Cornell (si veda il libro Amber, Gold & Black., History Press, pag 157) a partire dal 1903, mentre Ron Pattinson sul suo blog Shut Up about Barclay Perkins (http://barclayperkins.blogspot.it/) sostiene che sia avvenuto dal 1870, vedi http://barclayperkins.blogspot.it/2016/11/barley-wine-bollocks.html. Nonostante questa discordanza, libro e blog sono consigliatissimi per approfondimenti riguardo ai barley wine e agli stili inglesi in generale.
[3] La Thomas Hardy’s per quanto da alcuni considerata un archetipo di Barley Wine, da altri veniva classificata fra le Old Ale; da notare che la Elridge Pope oltre alla TH aveva in catalogo anche la Goldie, e solo questa veniva denominata Barley Wine
[4] Si veda la nota [3]
[5] Birreria di Sheffield, finita poi nelle mani di Whitbread insieme alla Gold Label, per decenni rimasta una delle bandiere anche di questa birreria. Da non confondersi con Tennent’s!
[6] si veda http://barclayperkins.blogspot.it/2013/11/the-lancet-and-basss-barley-wine.html sempre sul blog di Ron Pattinson
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